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IN QUESTO MONDO LIBERO…
(IT'S A FREE WORLD…)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 dicembre 2007
 
di Ken Loach, con Kierston Wareing, Juliet Ellis, Leslaw Zurek (Gran Bretagna, 2007)
 
I francesi dicono “donner du lard à des cochons”; e noi, perle ai porci…Succede a Ken Loach, maestro indiscusso del cinema di realismo sociale da ormai molti decenni, quanto è sempre capitato ai cineasti più prolifici. Come con un Woody Allen, per limitarci ad un contemporaneo di genere opposto, l'eccellenza della qualità, la puntualità dell'offerta finisce per viziare anche i consumatori più attenti.

Puntualmente, a proposito di quest'ultimo IT'S A FREE WORLD…, premiato alla Mostra di Venezia nel settembre scorso per la Migliore Sceneggiatura, si è sentito parlare del “solito” Loach. Eppure su questa vicenda di un suo ennesimo individuo volontà che si ritrova ai piedi del muro sociale e economico, della sua Angie regolarmente trombata dal sistema ma non per questo rassegnata che s'inventa un'agenzia di collocamento per immigrati destinata quasi ovviamente a farla evolvere non sempre encomiabilmente, l'inimitabile Ken costruisce uno di quei suoi messaggi frementi ed efficaci. Capaci, come nei suoi momenti migliori, di lievitare dall'universo pragmatico della volontà e dell'utilità politica a quello poetico.

“Un film sugli sfruttati sarebbe stato fin troppo prevedibile”, dice il regista. Oltre che ripetitivo, visto che nella carriera del regista inglese c'erano già stati BREAD AND ROSES, sugli immigrati messicani a Los Angeles, JUST A KISS su quelli di seconda generazione in Gran Bretagna e THE NAVIGATORS, a proposito delle lotte disperate dei ferrovieri per sopravvivere alle privatizzazioni. Se IN QUESTO MONDO LIBERO rappresenta un ulteriore passo innanzi rispetto a quei titoli, se si afferma come uno dei migliori Loach è anche perché la riflessione sulla dialettica fra meccanica sociale e dignità dell'individuo si alimenta e decuplica sulle ali di quello che è solo apparentemente un paradosso perverso, l'inesorabilità con la quale lo sfruttato diventa a sua volta sfruttatore.

Venezia non ha sbagliato premiando la sceneggiatura di Paul Laverty, non a caso collaboratore a due successi di Loach, MY NAME IS JOE (1998) e SWEET SIXTEEN (2002). E le sue parole spiegano perfettamente la genesi di questo : « personaggio di finzione, quello interpretato della straordinaria esordiente Kierston Wareing attira per la sua energia, ambizione e vulnerabilità. Contradditoria, terribilmente egoista ma temperata da una impetuosità, una generosità. Un mondo, il suo, che passa con “leggerezza” nell'illegalità, ma con una differenza rispetto alla violenza di quello degli imprenditori più o meno legali. Però, questa leggerezza si alimenta di una sua propria violenza, ancora più insidiosa, in quanto più generalizzata, più tollerata o soltanto ignorata”.

Riflessioni teoriche, di una lucidità già di per sé stessa encomiabile che l'universo poetico di Loach fa immediatamente, prodigiosamente sua. Quel male del sistema attorno a noi che si allarga a macchia d'olio, quella meccanica che la protagonista si era illusa di governare e che al contrario la rende progressivamente complice la regia lo fa immediatamente suo: bastano poche immagini dietro ai titoli di testa del per accorgersi di come lo sguardo attentissimo sulla realtà si accosti alle scene dettate dalla finzione. Maestro del realismo, ma maestro della fusione della fiction realistica con l'osservazione del documentarista. E casting impeccabili, che non nascono mai a caso, ma sono il frutto di ricerche di mesi, come nel caso di questa nuova protagonista.

Centrare i problemi del nostro tempo. Il precariato, l'immigrazione, certo; ma accostarsi accoratamente all'annientamento dell'individuo, dell'iniziativa del singolo. Costretto inesorabilmente a rientrare, come nella sequenza finale, in un liberismo scomposto; e, ovviamente, indifferente al filtro delle coscienze.


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